Gentile direttore,
Non ci si metterà certo d’accordo, nell’immediato, sull’esegesi storiografica relativa alla guerra civile italiana: partiamo da questo presupposto solido ed incontestabile.
Da una parte, infatti, ci sono i cosiddetti “antifascisti” che – carichi di passioni ideologiche, ricordi famigliari e simpatie personali – ritengono di essere i depositari della “ragione”; dall’altra parte, parallelamente, vi sono coloro che pur non definendosi “fascisti” – anch’essi per questioni di pensiero, per affetti e per inclinazione – reputano più conveniente sviluppare un approccio maggiormente critico rispetto a talune valutazioni storiche. Vi sarebbero, e vi sono, decine di validi argomenti per supportare logicamente sia la prima posizione sia la seconda: è sostanzialmente una questione personale quella che induce ogni persona normale del terzo millennio a determinare il proprio parametro critico nei confronti della storia italiana del secolo scorso.
Non esiste infatti – storiograficamente parlando – il concetto di “verità”: esistono – questo sì – dei dati oggettivi, spesso incontestabili e addirittura evidenti, ma è sull’interpretazione di quei “fatti” che si fondano le diversità culturali e politiche di “ermeneutica storiografica”. Non è serio, in definitiva, immaginare di “leggere” la storia – tanto più quella moderna – con le lenti della ragione e del torto perché, presto o tardi, il tempo si incaricherebbe di dimostrare l’assoluta fallacia di tale Approccio. La recente storiografia della nostra patria, nella sua parte più quantitativamente consistente, ha sofferto indubbiamente del vizio capitale dell’asservimento del “fatto storico” alla “necessità ideologica”.
Dal 25 aprile del 1945 in poi, infatti, i fatti relativi alla guerra civile italiana hanno dovuto cedere il passo ai simboli: la libertà e la pluralità della ricerca storiografica sono state messe in serio dubbio, in Italia, proprio durante i primi anni della novella democrazia italiana, quando da una parte i comunisti avevano tutto l’interesse a proporre la loro versione della guerra civile e dall’altra i democristiani, troppo presi a contare i posti governativi, poco o punto si interessavano delle questioni culturali. Eppure la cultura – soprattutto quella storica – ha un peso specifico, sul futuro di una nazione, ben maggiore rispetto a quanto ne abbiano mille posti di governo e di sottogoverno: la cultura storica entra nei gangli di un sistema e, alla lunga, lo plasma a sua immagine e somiglianza.
Questo concetto, ben chiaro ad alcune acute menti marxiste come Antonio Gramsci, fu precisamente tradotto nei fatti dagli intellettuali comunisti italiani: i quali, all’indomani del 25 aprile 1945, misero mano ai fatti storici al fine di selezionare, esaltandoli, i fatti graditi (che vennero mitizzati e divennero simboli) e ignorare, sottacendoli, i fatti sgraditi (che furono prima nascosti e poi letteralmente negati, anche innanzi a prove schiaccianti). Solo alcuni validi ma isolati storici “di destra” – questo è un fatto – seppero tenere viva, per quanto possibile in un clima di retorica a senso unico, l’attenzione storica relativamente alle pagine più oscene della Guerra civile. Ed è superfluo ricordare che atrocità immani furono commesse sia dai cosiddetti “antifascisti” che dai “fascisti”: non si è mai vista, infatti, una guerra civile in cui a combattersi vi siano da una parte gli angeli, immacolati e gentili, e dall’altra i diavoli, terribili e sprezzanti.
Non è serio chi pensa – soprattutto davanti all’incontestabilità dei fatti storici – di ingabbiare l’intelligenza umana entro delle barriere schematiche davvero troppo strette ed anguste per essere accettate: certo, durante la guerra civile italiana, vi fu da una parte la lotta banditesca in nome della libertà e dall’altra la repressione in nome dell’onore, vi furono dunque due prospettive radicalmente diverse che si scontrarono.
Al di là del fatto che meriterebbe un’accurata analisi l’idea di “libertà” che animava certe forze partigiane, così come ci sarebbe da chiarire l’idea di “onore” a cui si rifacevano alcuni sostenitori delle forze fasciste repubblicane, oggi, dovremmo essere in grado – tutti – di comprendere l’esigenza di riuscire ad andare oltre la dicotomia ideologica “ragione contro torto”.
Lo sforzo culturale verso cui tutti coloro che sanno fare buon uso della ragione umana – categoria che certamente non può comprendere coloro i quali sfruttano meschinamente date simboliche come il 25 aprile per patetiche carnevalate colorate di rosso – debbono tendere è quello di abolire, nel linguaggio storiografico, l’utilizzo dei termini di ragione e di torto utilizzati in relazione all’analisi di qualsivoglia fatto storico.
Non si tratta qui di “mettere tutti sullo stesso piano”, come qualcuno sostiene: si tratta piuttosto di sgomberare il campo storico – ma in larga misura anche quello politico – da un increscioso equivoco di fondo che vorrebbe continuare a “leggere” la storia con le lenti di quei pregiudizi ideologici che portano ad affibbiare le ben note patenti di ragione e di torto a determinati fenomeni storici.
Al giorno d’oggi qualunque persona sana di mente riderebbe – ed a ragione – se, con retorica roboante e francamente immotivata, qualcuno si mettesse a sentenziare che, durante la guerra civile romana tra Cesare e Pompeo, il primo aveva ragione e l’altro avevatorto: si riderebbe perché la storia, essendo per sua natura complessa, non la si può costringere in categorie troppo semplificate, se non a costo di suscitare ilarità.
Tra qualche secolo, quando chi verrà dopo di noi necessariamente “leggerà” la storia con lo stesso distacco emotivo con cui noi, oggi, analizziamo la storia romana, alla vista delle immagini oscene e raccapriccianti di Piazzale Loreto difficilmente potrà affibbiare il concetto di torto solo ad una delle due parti contendenti durante la guerra civile italiana. Così come difficilmente, guardando alcuni autentici episodi di eroismo individuale e di fedeltà assoluta alla patria messi in atto da uomini e donne aderenti alla Repubblica Sociale Italiana, si potrà ancora dire, senza vergognarsene profondamente, che la ragione stava solo da una parte. Il tempo porterà certamente, come è naturale che sia, maggiore equilibrio
nell’analisi dei fatti del nostro passato e, in particolare, della storia della guerra civile italiana: perché non basteranno i simboli della retorica di parte, come le tronfie celebrazioni degli anniversari del 25 aprile, a soffocare l’anelito di verità e di pietà a cui tende lo spirito della storia.
Gli anni porteranno con sé gli odi, talvolta artificiosi, nati tra gli uomini, si assopiranno certe estreme passioni e, allora, la ragionee il torto lasceranno il campo della storia per una più tranquilla e serena analisi dei fatti storici. Questa non è solo una speranza personale: è una certezza storica.
Emanuele Pozzolo
Consigliere comunale di Vercelli