(Katia Ceretti) - Il 9 maggio alle ore 21, presso la Bottega del Commercio Equo e Solidale di Vercelli in via Galileo Ferraris, non è solo stato presentato un libro ma anche un “uomo nuovo”, rinato grazie all'esperienza del volontariato infermieristico in Afghanistan. Il protagonista di questo viaggio, che gli spettatori hanno potuto fare virtualmente, è stato Andrea Filippini detto “Floppy”, un infermiere di Bologna che per sei mesi ha vissuto la guerra, ha portato soccorso e conforto in uno degli ospedali più organizzati dell'Afghanistan con giardini ricchi di ogni specie floreale e ben curati. “L'Afghanistan è entrato da me” - spiega Andrea - “poichè per via della guerra e del lavoro non sono mai potuto uscire al di fuori dell'ospedale e della casa in cui alloggiavo con altri volontari. Quello che ho conosciuto di questo paese è stato solo attraverso l'ospedale e le persone che curavo”. Perchè proprio l'Afghanistan, si potrà chidedere il gentil lettore? Perchè la scelta di andare in mezzo alla guerra, di lasciar da parte la propria vita, la propria ruotine, le proprie “certezze”, i propri affetti, le proprie comodità? Curiosità, voglia di cambiare, di mettersi in gioco, di crescere spiritualmente, di essere una persona migliore. Ed è così che è nato il libro che Floppy ha scritto ed ha presentato: una serie di mail indirizzate ad amici e genitori che alla fine di questo viaggio sono state raccolte per essere pubblicate. La scelta della pubblicazione è nata solo a distanza di anni: Andrea, dopo un'esperienza che tocca così nel profondo, ha capito che doveva “liberarsi di qualcosa”, far partorire quel che aveva visto non solo per rendere partecipe il mondo di ciò che capita altrove ma anche per star meglio umanamente, egoisticamente parlando. La parola “egoismo” forse può non suonar appropriata quando si parla di volontariato, di guerra, di morti: eppure siamo esseri umani e come tali abbiamo bisogno di una valvola di sfogo. Questo sfogo in Afghanistan sono stati i colleghi con cui si lavorava ogni giorno e con cui si condivideva la vista della morte. “Ci si mandava a quel paese e poi, dopo cinque minuti, si andava a prendere un caffè tutti assieme” spiega Andrea. “A volte mi facevo lunghissime docce per levar via quell'odore di morte e di guerra, per pulirmi da tutto il male che ogni giorno dovevo vedere senza pormi domande...perchè se ti poni domande è finita. Non fai più il tuo lavoro e tu sei lì per curare ma soprattutto per portar sorrisi”. La consapevolezza distrugge l'uomo e questo Andrea lo sapeva bene; così è andato avanti. Il 40% dei feriti che gli arrivavano erano bambini al di sotto dei 14 anni, impassibili, tanto che sembravano sotto shock, ormai così avvezzi al dolore che per loro sembrava normale. Come capire questa sofferenza? Non possiamo pretendere di capirla ma solo, al massimo, immaginarla, con estrema difficoltà. Pensiamo ai bambini che ci vengono mostrati come frutta al mercato in televisione: ecco; raddoppiamo per un miliardo quegli sguardi così mesti, quegli cchi così vitrei da cui traspare l'anima di un adulto e non quella di un bambino. Bambini lasciati morire dai genitori che dovevano pensare all'utilità, alla forza lavoro che questi gli potevano dare e che, invalidi, avrebbero sol pesato alla numerosa famiglia. Questa è la sofferenza che non ci viene raccontata tanto che Andrea, appena sceso dall'aereo e giunto in Afghanistan, credeva di aver sentito parlare di un'altra terra. La scelta del libro è stata spinta anche dalle censure che sono state apportate ad un video che Andrea, che si occupa anche di teatro, aveva fatto per raccontare di questa terra “che ormai non va più di moda”. “Dopo le censure” - spiega Andrea - “in me è nata rabbia dovuta all'ingiustizia del non poter raccontare una realtà troppo scomoda. Ciò mi ha spinto ancor di più a scrivere, a studiare su come far l'editore perchè io sono un infermiere e non uno scrittore. Ho provato e quando finalmente è nato questo bambino che portavo da troppo dentro di me ho pensato che mi sentivo più leggero; ho pensato di aver scritto anche io un frammento di Storia poiché la storia è quello che ci è giunto impresso sulla carta, sul legno, sulle pareti. Non è detto che sia accaduto ma è una prova della presenza di una civiltà, della rielaborazione di avvenimenti, della loro assimilazione in un contesto culturale. Lo scrivere è testimone di vita, di pensiero, di riflessione, di volontà di restare ai posteri”. Così dicevano Livio, Quintilliano, Cicerone ma ancor prima Plutarco più di duemila anni or sono. Andrea ha redatto il libro assieme all'Associazione “A cross a live” (www.acrossalive.com visitabile anche su facebook), collettivo che l'ha sostenuto nella sua idea fino in fondo: “abbiamo scelto di non dare in pasto alle grandi catene questo libro ma solo alle attività indipendenti, realmente interessate a questo lavoro così che possa essere letto da chi lo saprà apprezzare”. Il libro è un qualcosa di sacro, è un donarsi ad uno sconosciuto che leggerà parte del nostro Io la quale esperienza, a sua volta, andrà a far parte del suo Io. Per Andrea e per il Collettivo l'indipendenza parte da queste apparentemente piccole cose; inizia da un'indipendenza culturale ed alimentare, in una scelta di vita ecosostenibile tanto che il libro stesso è stato fatto con una carta FSC, ossia per ogni albero tagliato ne viene ripiantato un altro. Un libro molto ragionato e controcorrente a partire dal titolo che ripete per tre volta la parola “Afganistan” in maniera errata ricordando gli errori grammaticali dei politici che, come asserisce Andrea “decidono della vita di un paese e dei suoi abitanti senza nemmeno sapere come si chiama”. L'esperienza di Floppy non è stata però solo segnata dalla rabbia e dal dolore ma soprattutto dalla gioa; il chè può stupire. Eppure è proprio il ridere, il prendere le cose non troppo sul serio che in circostanze di estremo dolore salva l'animo degli esseri umani come fosse una corazza da tutto quel male visto e davanti al quale ci si sente impotenti, carnefici ed angeli allo stesso tempo. “Il nostro obbiettivo non era soo quello di curare dall'agonia fisica ma soprattutto quello di strappare dei sorrisi, specie ai bambini, di farli emozionare facendogli riconquistare così la loro fanciullezza. Riusciti in quest'impresa si vedevano bambini correre per tutto l'ospedale come fossero in Luna Park, a portare gioia ad anziani e ad altri infermi. Acquisita fiducia in coloro che li curavano capivano che almeno dentro quella struttura erano al sicuro dalle bombe e così iniziavano ad ispezionare il territorio come piccoli appena usciti dal nido”. L'esperienza di Andrea ci fa comprendere quanto sia vero il detto che dopo un gran patire nascono grandi gioie: l'ospedale, un po' grazie ai variopinti giardini, un po' grazie ai contagiosi sorrisi fanciulleschi si è tramutato in una sorta di “isola felice”, uno spazio in cui inferno e paradiso coesistono e spetta solo agli uomini decidere in quale tra queste due sfere vivere. Grazie ad Andrea e a questa sua magnifica esperienza forse un po' di Afghanistan è entrato nel cuore degli spettatori e dei lettori, assieme ad un pizzico di umanità e, forse, molti dopo aver ascoltato le sue incisive parole spereranno che Platone avesse avuto torto quando affermava che “la fine della guerra l'han vista solo i morti”.