E’ il 1 giugno 1906, quando le Mondariso ottengono di
lavorare “solo” per otto ore giornaliere in risaia.
Prima era l’arbitrio assoluto del datore di lavoro.
Non fu un’impresa facile: i mondi imprenditoriali
arcaici e, tuttavia, profondamente radicati nel tessuto economico e sociale del
tempo, assi portanti del “sistema”, sapevano il fatto loro.
Fu anche grazie al fatto che di quel “sistema” era
espressione autorevole l’Avvocato Modesto Cugnolio, il Legale del Sindacato
delle Mondine, se i muri – anche quelli, anche allora – furono abbattuti: il
difensore dei diritti delle mondariso parlava con la controparte a testa alta e
da pari a pari.
***
Ma, per le donne che migravano per lunghi mesi l’anno
da tante parti d’Italia, soprattutto Veneto ed Emilia Romagna, lasciando le
famiglie per dedicarsi ad un lavoro pesantissimo, sopportando condizioni di
vita non di rado umilianti, poteva capitare che la fatica della giornata non finisse
nell’acqua della risaia.
C’era il lavoro: otto ore a piedi nudi nella melma,
con l’acqua fino al ginocchio, piegate sotto il sole per estirpare la piantina
del “giavone”, la graminacea concorrente del riso, che tanto gli somiglia,
specie nelle fasi vegetative iniziali.
E loro dovevano stare attente a bonificare e diserbare
la risaia, senza danneggiare la pianticella del riso.
Perciò bisognava stare chine, aguzzando la vista:
questa sì, questa no.
Per otto ore, facendo anche incontri poco simpatici
con bisce e topi.
Poi, finalmente, nel pomeriggio si torna alla cascina
che si era lasciata poco dopo l’alba.
Dove sono pronti cameroni con qualche servizio
igienico qua e là.
Si può mangiare qualcosa, poi si chiacchiera, poi si va
a dormire.
Ma non è così per tutte.
Perché il padrone non di rado ne adocchia una carina:
magari a casa ha una famiglia che ha bisogno.
E allora il padrone chiede anche lo straordinario.
E, se non sta attento, capita quello che deve capitare
e la sua facile e obbligata conquista si ritrova in stato interessante.
Adesso a casa chi glielo dice?
In cascina non può più stare, certo non può più
lavorare.
Incinta e senza un posto dove andare.
La disperazione può avere tanti volti: quello di una donna
che porta in grembo una vita e non sa a che santo votarsi è sempre il volto che
più di ogni altro ci interpella, mettendoci di fronte ad una responsabilità
rispetto alla quale non si può girare la faccia dall’altra parte.
Perché quel figlio è sempre figlio di ciascuno di noi
ed a ciascuno di noi la Provvidenza ne chiede conto.
***
Come ci ha ricordato e forse insegnato, 85 anni fa,
Giuseppina Dusnasi.
Che, si studiò un modo per soccorrere quelle ragazze.
Accogliendole in una casa dove potessero portare a
termine la gravidanza, poi pensare per un po’ alla propria creatura, in attesa
di trovare una sistemazione e che la vita finalmente vincesse sulle
sovrastrutture che la soffocano.
***
Nacque così quella che ancora oggi conosciamo come
Piccola Opera Charitas.
Che, fino a non molto tempo fa, chiosava la propria
ragione sociale con la significativa locuzione “e protezione della giovane”.
Piccola Opera Charitas e Protezione della Giovane.
***
Poi l’ambito di azione si ampliò, accogliendo anche
persone di età più avanzata ed oggi, quando si festeggiano gli 85 anni dalla fondazione,
è un luogo di accoglienza ed assistenza degli anziani.
***
Di tutto questo si è fatto memoria ieri, sabato 16
novembre, quando l’Arcivescovo di Vercelli Mons. Marco Arnolfo ha fatto visita
all’Istituto di Via Rosanna Re, accolto dalla Presidente della Fondazione Piccola
Opera Charitas, Tiziana Archero e dalla Vice Presidente, Laura Greppi Scagliotti. Condividono l'impegno nel Consiglio di Amministrazione Carla Zavattaro, Rosaria Vinci, Adriana Costantino Francesco Zanotti erede Dusnasi,
Ha portato il saluto del Comune di Vercelli l’Assessore
Ombretta Olivetti.