È on line il video con la prolusione
integrale tenuta dal Prof. Alessandro Barbero a Vercelli per la celebrazione
del 74.mo Anniversario della Liberazione (25 aprile 1945).
Un documento unico che VercelliOggi.it
è lieto di avere messo in repertorio ed ora offrire ai propri Lettori e – si passi
l’ambizione – alla comunità intera che potrà averlo sempre a disposizione
consultando i nostri Portali.
L’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani
Italiani) di Vercelli, con la Presidente Elisabetta Dellavalle, ha veramente
fatto centro, assicurandosi l’intervento di un così illustre Ospite, certamente
capace di fare convergere sia in S.Andrea per la celebrazione della S.Messa,
sia poi in Piazza Camana per la parte “laica” della giornata, un pubblico veramente
numeroso.
Questo momento veramente felice della
vita dell’Anpi, che sa rendere attuali e vivi, messaggi e ricordi, insegnamenti,
di un passato che non deve essere dimenticato, non nasce dal nulla.
Nella parte pomeridiana delle
celebrazioni, tenuta come sempre ai Cappuccini, è emerso con evidenza – lo vedremo
tra breve – come l’Associazione abbia saputo “tenere viva la fiamma” con
intelligenza e dedizione già con il lungo impegno di Sandra Ranghino, poi dei
componenti il Direttivo.
Ai Cappuccini il ricordo delle vittime
dell’oppressione nazifascista che hanno abitato il Rione, una città nella
città, con la lettura di alcune biografie tratte proprio da "Pietre Resistenti", l’opera di Sandra
Ranghino.
Il filmato, oltre all’intervento di
Barbero, integrale, fa una sintesi della introduzione di Elisabetta Dellavalle
e poi offre qualche scampolo di questa bella giornata, che sicuramente ha fatto
bene a Vercelli.
Il discorso ufficiale è anche proposto,
sempre integralmente, nel testo scritto, gentilmente fattoci pervenire, che si
trova al termine di questo articolo, appena qui sotto.
Il corredo iconografico della gallery, a fondo pagina, completa il
servizio.
***
IL TESTO INTEGRALE DELLA
PROLUSIONE DEL PROF. ALESSANDRO BARBERO, ORATORE UFFICIALE DELLA GIORNATA
COMMEMORATIVA NEL 74.MO ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE.
Qualche giorno fa, se
posso cominciare con una testimonianza personale, sono stato invitato a parlare
della Resistenza a una platea di studenti al liceo Alfieri di Torino. A
invitarmi era stata la Consulta degli studenti torinesi, l'organizzazione che
rappresenta ufficialmente gli studenti delle scuole superiori, e che è formata
da rappresentanti eletti di tutte le scuole della provincia. Come potete
immaginare, il fatto che un organismo rappresentativo, composto da ragazzi
delle scuole superiori, abbia voluto organizzare un incontro su questo argomento
mi ha fatto enormemente piacere, e mi ha anche un po' stupito, lo confesso:
avevo paura che a distanza di così tanti anni la Resistenza rischiasse di
apparire ai ragazzi di oggi qualcosa di inattuale, magari ancora meno
interessante per il fatto stesso di essere oggetto di celebrazioni ufficiali. All'inizio,
i ragazzi mi hanno chiesto di affrontare il tema "I giovani e la
Resistenza". Io ho fatto presente che parlare dei giovani nella Resistenza
significa parlare della Resistenza, e basta: perché la Resistenza è stata una
guerra, e ogni guerra è combattuta da giovani. Certo, quei giovani erano
diretti e organizzati da persone più mature, e fra l'altro da militari di
carriera dell'Esercito italiano, perché fin dall'inizio la Resistenza non è
stata solo un movimento spontaneo, ma anche un movimento riconosciuto
dall'unico legittimo governo italiano di allora, diretto sul piano politico da
rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, e sul piano militare da
generali del Regio Esercito, alcuni dei quali vi hanno speso la vita: come il
generale Perotti, coordinatore del Comitato militare regionale piemontese, uno
degli otto fucilati il 5 aprile 1944 al Martinetto. Ma quei politici e quei generali
dirigevano un movimento composto per la stragrande maggioranza da giovani.
Alla fine, con gli
organizzatori dell'incontro abbiamo concordato che non avrei tenuto una
conferenza, ma avrei provato a rispondere alle loro domande. Confesso di aver
avuto fin dall'inizio l'idea che proprio le loro domande mi avrebbero aiutato
anche a impostare questo intervento che ho l'onore di tenere qui oggi. Le
domande, quel giorno, sono poi state così tante e così vaste che non posso qui
riprenderle tutte, ma vorrei comunque partire da una di queste. E la domanda
era: "La Resistenza da un punto di
vista militare e politico quale ruolo ha avuto e che cosa ha ottenuto? Alcuni
pensano che anche senza la Lotta di liberazione la guerra sarebbe andata allo
stesso modo. Secondo loro, lasciando combattere solo gli Alleati si sarebbero
causate meno vittime. Questa cosa è vera?" La domanda mi ha colpito molto
perché ho riconosciuto in questo dubbio un tema ricorrente di quella velata
ostilità verso la Resistenza che non si è mai dissipata in una parte
dell'opinione pubblica italiana, e nella memoria di una parte delle famiglie
italiane. E' un'affermazione che spero non farà sobbalzare nessuno: avete
invitato uno storico a parlare in questo 25 aprile e il dovere dello storico è
di cercare la verità anche nei suoi aspetti meno rosei. Ce lo ricordava Marc
Bloch, uno dei più grandi storici del Novecento, dirigente della Resistenza in
Francia, fucilato dai nazisti a Lione il 16 giugno 1944; nelle sue carte fu
ritrovata la richiesta di scrivere sulla sua tomba questo semplice epitaffio: Dilexit veritatem, ha amato la verità. E
la verità è che la Resistenza fu una guerra civile; quando quasi trent'anni fa
Claudio Pavone, lui stesso partigiano, scelse di dare quel titolo alla sua
grande storia della Resistenza, ci furono polemiche, quasi che quella
definizione fosse sconveniente; in realtà basta scorrere le testimonianze
dell'epoca per accorgersi che tutti nell'Italia del 1944-45, anche chi stava
facendo la Resistenza, usavano tranquillamente l'espressione "guerra
civile". Ma una guerra civile lascia degli strascichi che è difficile
ricomporre, ed è per questo che tanti ragazzi di oggi sicuramente ancora si
sentono dire in casa, come me lo sentivo dire io negli anni Settanta, che sulla
Resistenza si è fatta troppa retorica, perché dal punto di vista militare non
ha cambiato niente, gli americani avrebbero liberato comunque l'Italia, e se è
così, allora non sarebbe stato meglio che quei ragazzi se ne fossero rimasti a
casa, evitando di farsi uccidere e di provocare tante rappresaglie, tante
vittime innocenti? In moltissime case italiane questi discorsi non hanno smesso
d'essere fatti.
A questi discorsi si può
e si deve rispondere in due modi. E il più importante, naturalmente, è che
anche se fosse vero che la lotta partigiana non ha avuto un peso militare
importante, non cambierebbe niente, perché il valore della Resistenza è nell'immagine
dell'Italia che ha dato al mondo. Al mondo, e innanzitutto ai nostri alleati
riluttanti, che già allora si chiamavano le Nazioni Unite, e che del popolo
italiano diffidavano non poco: la Resistenza ha fatto vedere che in Italia
c'erano tanti e tanti giovani che dal fascismo erano usciti, che non ci
credevano più, che volevano un'Italia libera e democratica, e che per questo
erano disposti a rischiare la vita. Quand'anche i loro sacrifici fossero
davvero stati irrilevanti dal punto di vista strettamente militare, il solo
fatto di aver mostrato al mondo che cos'era la nuova Italia basterebbe a
renderli preziosi, anzi indispensabili al paese; è grazie a loro che De
Gasperi, quando parlò a Parigi, nel 1946, alla Conferenza di Pace, davanti a un
uditorio ostile che vedeva ancora nell'Italia la patria del fascismo, poté
tenere quel famoso discorso, che cominciava così: "Prendendo la parola in
questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia,
è contro di me". In quel discorso De Gasperi ricordò ai vincitori che
l'Italia non poteva essere trattata come un nemico sconfitto: lo dimostrava la
Resistenza in tutte le sue forme; e De Gasperi evocava la guerra combattuta dal
Corpo Italiano di Liberazione, "i militari e civili vittime dei nazisti
nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti caduti nella lotta
partigiana". Non era la prima volta che un'Italia umiliata e offesa si
trovava a doversi riscattare agli occhi del mondo, e non può non venire in
mente quello che neppure cent'anni prima scriveva un altro dei nostri grandi
politici, Cavour, nel momento in cui decise di fidarsi di Garibaldi, un
sovversivo, e di appoggiare il suo sbarco in Sicilia: noi non possiamo oggi
metterci contro Garibaldi, scriveva Cavour, perché, e qui cito, "Garibaldi
ha reso all'Italia i più grandi servigi che un uomo potesse renderle: ha dato
agli italiani fiducia in se stessi, ha dimostrato all'Europa che gli italiani
sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistare una patria".
La Resistenza, che non a caso scelse Garibaldi come uno dei suoi simboli, aveva
dimostrato la stessa cosa, e nell'Italia degli anni Quaranta queste parole non
suonavano retoriche: avevano ancora un nocciolo di verità e di attualità.
E questa è la risposta
più importante da dare a chi dice che la Resistenza non ha contato niente dal
punto di vista militare. Ma voi avete chiamato a parlare oggi uno storico che
fra l'altro è anche, quasi come secondo mestiere, uno storico militare. Ed è
proprio in questa qualità che mi sento di dire che la Resistenza italiana ha
avuto un ruolo tutt'altro che insignificante nella vittoria alleata. Le bande
armate che hanno fatto la Resistenza al Nord occupando le valli e le colline,
bloccando vie di comunicazione, liberando - e governando per mesi - interi
territori, rendendo la vita difficile ai presidi tedeschi e fascisti, sono
arrivate in certi momenti a tenere impegnate fino a sette divisioni tedesche,
di cui quattro, vorrei sottolinearlo, in Piemonte, senza alcun dubbio la
regione in cui la Resistenza fu più tenace e più combattiva; e vi assicuro che
certi comandanti tedeschi che combattevano in Italia o in Francia sarebbero
riusciti a fare molte cose se avessero avuto a disposizione, non sette, ma
anche solo una divisione in più. All'indomani dello sbarco alleato nella
Francia meridionale, il 15 agosto 1944, il maresciallo Kesselring decise di
mandare immediatamente in Francia la 90a divisione Panzergrenadieren attraverso la statale 21 del colle della
Maddalena. La brigata di Giustizia e Libertà che occupava il Vallone dell’Arma
al comando di Nuto Revelli sbarrò la strada al nemico, la divisione tedesca
attesa con urgenza al fronte impiegò otto giorni per salire da Cuneo al colle
della Maddalena, il bollettino del comando supremo tedesco menzionò come un
successo il fatto che la strada fosse stata riaperta “nonostante la tenace
resistenza opposta dai terroristi”. Quest'esperienza spinse i tedeschi, a
settembre, a indirizzare ai partigiani della Valle Po la richiesta di
consentire il libero passaggio dal Colle delle Traversette, in cambio
dell’impegno a non attaccarli, richiesta peraltro respinta.
Ma la Resistenza non si
identifica solo, lo sappiamo, con la guerra delle bande, poi diventate brigate
e divisioni, nelle montagne. Si identifica con la lotta disperata del regio
esercito, aiutato dalla popolazione civile, nei sobborghi di Roma nei giorni
successivi all'8 settembre; con il sacrificio dei reparti rimasti isolati in
Grecia e nei Balcani, come la divisione Acqui
a Cefalonia; con quello dei deportati e degli internati; e con la guerra
condotta dai GAP nelle grandi città. A proposito di quest'ultima, varrà pur la
pena di citare la testimonianza del colonnello Dollmann, comandante delle SS a
Roma, il quale rievocando l'attacco dei GAP contro un battaglione di polizia
militare tedesca a via Rasella ha detto: "Roma è stata la capitale che ci
ha dato più filo da torcere". Roma: non Parigi o Belgrado o Copenaghen. Il
maresciallo Kesselring confermò, al suo processo: "Roma era diventata per
noi una città esplosiva... Per noi era un grave problema... Tra l'altro ne
risentiva direttamente anche il morale delle truppe combattenti, che non si
potevano più mandare a Roma per brevi periodi di riposo e di licenza". E
il comandante di tutte le forze alleate nel Mediterraneo, il generale
Alexander, disse che aveva cominciato a rispettare gli italiani all'indomani
dell'attacco di via Rasella, quando aveva scoperto che Roma era "una città
che ha osato sfidare in pieno centro un battaglione tedesco armato". E
dunque l'idea che dopo tutto la Resistenza abbia avuto poco o nessun peso in
termini strettamente militari è da relegare nell'armamentario dei luoghi
comuni, apparentemente così veri e invece imprecisi e faziosi, con cui una
parte della memoria collettiva italiana ha sempre cercato di sminuire il
significato della lotta partigiana.
Un'altra domanda che mi
hanno fatto i ragazzi è questa: chi erano i partigiani? Da dove venivano, quali
settori della società rappresentavano? E qui, di nuovo, la risposta è: venivano
da tutte le parti, e rappresentavano tutte le classi sociali. Nella Resistenza
ci sono gli studenti universitari e quelli che hanno fatto la terza elementare,
c'è la classe dirigente e c'è il popolo delle periferie; nei due GAP che il 23
marzo 1944 realizzano l'attacco di via Rasella, 17 ragazzi in tutto, ci sono
tre futuri professori universitari, Carlo Salinari ordinario di letteratura
italiana e preside della facoltà di Lettere alla Sapienza di Roma, Giulio
Cortini ordinario di Fisica nucleare, Mario Fiorentini ordinario di Geometria
superiore, ma ci sono anche anche un portinaio, un tassista, un muratore,
un'impiegata. In Piemonte uno dei comandanti più famosi è il comandante
Campana, impiccato a Giaveno dai tedeschi nell'agosto 1944, e che ha lasciato
il suo nome di guerra al palazzo Campana di Torino, la vecchia sede delle
Facoltà Umanistiche, la cui occupazione da parte degli studenti ha dato inizio
al 68 italiano; ebbene il comandante Campana era il marchese Cordero di
Pamparato, ufficiale di carriera, monarchico, cattolico, medaglia d'argento in
Africa. Ma nelle bande c'erano anche le migliaia di operai che hanno fatto la
Resistenza nelle valli di Lanzo, nelle montagne del Biellese, in Valsesia, in queste
nostre terre di fortissima tradizione operaia e conflittuale, dove il
proletariato non era ammassato nei centri urbani, ma dislocato in una
moltitudine di piccoli centri, e in parte ancora radicato nel mondo contadino,
e dove si è creato un territorio naturalmente favorevole alla lotta partigiana,
per la sua geografia naturale e per la sua geografia umana. Qui una Resistenza
fortemente orientata a sinistra, con connotazioni di classe oltre che
patriottiche, ha trovato un diffuso supporto collettivo, e sono le stesse fonti
nemiche a dirlo: i rapporti della Guardia Nazionale Repubblicana provenienti
dal Biellese e dalla Valsesia denunciavano sgomenti l’appoggio che i ribelli
trovavano tra la popolazione locale, “notoriamente di sentimenti sovversivi”.
Ma nella Resistenza
accanto ai sovversivi ci sono gli uomini d'ordine, i patrioti fedeli al re, i
liberali e democristiani che saranno ministri nell'Italia moderata e
anticomunista del dopoguerra. Ci sono quelli che dopo la guerra finiranno nel
mirino della magistratura, come Francesco Moranino, "Gemisto", che dovrà
espatriare nella Cecoslovacchia socialista, e quelli che diventeranno trent'anni
dopo dei bersagli delle Brigate Rosse perché visti come pilastri dell'ordine
costituito, da Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, all'avvocato Fulvio
Croce, presidente dell'ordine degli avvocati di Torino. Ci sono quelli come
Pietro Secchia, protagonista il 25 aprile della liberazione di Milano, che
fanno la Resistenza come premessa alla rivoluzione e che sarebbero disposti a
continuare la lotta armata anche dopo la fine della guerra civile, e quelli
come il sergente degli alpini Maggiorino Marcellin, nome di battaglia “Bluter”,
ex campione di sci, che organizza le bande di Giustizia e Libertà in Val
Chisone, e che nel marzo 1944, quando un ufficiale tedesco sale al suo comando
per trattare uno scambio di prigionieri, lo riceve facendo schierare la guardia
e alzare la bandiera, e quando il tedesco gli chiede “Chi siete? Siete dei
comunisti?” risponde: “Siamo il Terzo alpini, non facciamo politica, vogliamo
scacciare l’invasore dalla nostra terra”.
E ci sono gli immigrati
dal Sud, molto più numerosi in Piemonte, già allora, di quel che potremmo
credere: gli studi di Claudio Dellavalle e il database realizzato dall'Archivio
di Stato di Torino hanno permesso di identificare finora oltre oltre 6000
partigiani piemontesi nati al Sud, di cui 400 caduti: il 7% dei caduti
partigiani in Piemonte. Sono percentuali che oggi ci stupiscono: eppure l'aveva
notato, fin da subito, il più grande scrittore che abbia raccontato la
Resistenza, Beppe Fenoglio. Nel Partigiano
Johnny, Fenoglio descrive l'incontro del protagonista con i partigiani a
cui ha deciso di unirsi. Il primo in cui s'imbatte è un militare sbandato, ancora
vestito in grigioverde, che gli intima il chi va là "con un accento così
disperatamente siciliano... che Johnny se ne risentì, stupì ed accorò
incredibilmente. Tutto aveva da essere così nordico, così protestante...".
Si sa che Fenoglio, come il suo personaggio, avrebbe voluto essere inglese e
che per lui gli italiani erano tutti troppo meridionali, compresi i suoi
concittadini di Alba. Ma far incontrare a Johnny proprio un siciliano serviva a
sottolineare in tono ancora più ironico il contrasto fra le sue illusioni
libresche e la complessità della realtà italiana in cui viveva. I meridionali
che hanno combattuto nella Resistenza piemontese non sono tutti immigrati per
lavorare alla FIAT: ci sono i militari rimasti in Piemonte dopo lo sbandamento
della Quarta Armata, gli ufficiali di complemento come l'avvocato Pompeo
Colajanni di Caltanissetta, comunista da quando aveva quindici anni e schedato
dalla polizia, ma che era stato lo stesso – meraviglie della burocrtazia
italiana – mandato a Pinerolo a fare l'ufficiale di Nizza Cavalleria; e gli
ufficiali di carriera come il capitano d'artiglieria Luigi Scimè, il Capitano Gigi, di Racalmuto, comandante
della V Divisione Autonoma "Mondovì", medaglia d'argento; o come il
napoletano Aldo Vizzari, anch'egli ufficiale d'artiglieria, che dopo la guerra
diverrà comandante del distretto militare di Vercelli. Ma c'erano anche gli
immigrati di seconda generazione, che non rientrano nel database perché sono
nati qui, come Dante Di Nanni, figlio di immigrati pugliesi venuti ad abitare
nelle case fatiscenti del centro storico di Torino, le stesse dove si
ammasseranno i nuovi immigrati del dopoguerra.
Mentre parlavo di queste
cose con i ragazzi delle scuole torinesi mi è venuto in mente che parlavamo di
ragazzi appena più vecchi di loro. Per sapere chi erano quei ragazzi,
cos'avevano in testa, un indizio affascinante è offerto dai nomi di battaglia
che si sono scelti al momento di entrare in banda, e che il database
dell'Archivio di Stato di Torino permette di studiare. Nel caso dei partigiani
provenienti dal Sud, non di rado il nome di battaglia rimanda esplicitamente ai
luoghi d'origine: ben nove lucani si chiamavano Potenza, sei calabresi si chiamavano Cosenza, diciotto siciliani si chiamavano Catania. Non mancano i Sicilia,
i Calabria, i Puglia, i Sardegna. Tipicamente
siciliani sono i nomi di battaglia tratti dall'Opera dei Pupi: ben ventidue Orlando e anche un Rodomonte. Ma nella maggioranza dei casi, i partigiani provenienti
dal Sud si scelsero nomi di battaglia del tutto simili a quelli degli altri, nomi
che hanno le loro radici nell'immaginario adolescenziale italiano dell'epoca,
uguale da Aosta a Palermo. Un immaginario plasmato sui romanzi di Salgari e di
Dumas, sui film western e sui fumetti: e così i ragazzi che entrano nelle bande
decidono di chiamarsi D'Artagnan, Athos, Aramis, Tarzan, Yanez, Sceriffo, Blek, Aquila rossa, Diavolo nero, e poi Lupo,
Tigre, Feroce, Fulmine, Tempesta,
Uragano. Ci sono Cino (come non
pensare qui a "Cino" Moscatelli, leggendario comandante garibaldino
nel Biellese) e Franco, protagonisti di uno dei fumetti per ragazzi più
popolari degli anni Trenta. Ce n'è che vengono dai personaggi del
"Corriere dei Piccoli": Fortunello,
Bonaventura; altri, invece,
dall'antichità classica: Achille, Aiace, Ulisse. Alcuni rimandano ai grandi capi della coalizione alleata (Ciurcill, Stalin); qualcuno vuole suonare americano (Gimmy, Joe, Tedy, Dick, Gim, Tom) e ci sono perfino quelli che suonano tedeschi:
quattro Franz, tre Fritz. Alcuni rimandano a un immaginario
sportivo recente (un Bartali e ben
sei Carnera), altri ancora a un
immaginario popolare più antico, anch'esso rinfrescato però dal cinema: ben venticinque
partigiani in Piemonte scelsero di chiamarsi Fra Diavolo, e qui fu decisivo l'omonimo film di Luigi Zampa,
uscito proprio nel 1942: forse l'ultimo film che avevano visto, nei cinema
della città, prima di salire in montagna.
Insomma, chi erano i
partigiani? Erano uno spaccato della gioventù italiana, con tutta la sua
varietà e tutte le sue contraddizioni. Erano diversi per origine regionale,
scolarizzazione, classe sociale, opinioni politiche, ma avevano letto gli
stessi libri e giornalini, e visto gli stessi film, e su una cosa non avevano
dubbi: di essere italiani, e che stavano lottando per il futuro dell'Italia,
anche se poi se lo immaginavano in modi diversi. Un altro meridionale destinato
a diventare una figura mitica della Resistenza piemontese, Vincenzo Modica, il
comandante Petralia, anche lui
ufficiale di complemento alla scuola di cavalleria di Pinerolo, ricorda che a
deciderlo a unirsi ai partigiani furono proprio "le parole che l'amico
tenente Colajanni andava ripetendo a noi giovani ufficiali durante le
passeggiate sotto i viali di Cavour: 'Vedete quelle montagne? Presto saranno
piene di veri italiani'". Viva il 25 aprile, viva la Resistenza, viva
l'Italia.
***
Vercelli ha risposto con entusiasmo
all’invito rivolto dall’Anpi e dalla sua Presidente Elisabetta Dellavalle per
una celebrazione dell’Anniversario della Liberazione ( 25 aprile 1945 )
affidata al rigore storico di un oratore d’eccezione, il Prof. Alessandro
Barbero.
C’è bisogno di recuperare al rigore di
cui è capace lo sguardo indagatore dello Storico la Liberazione d’Italia, la
guerra civile che ha portato il Paese a recuperare credibilità e dignità anche
nello scacchiere internazionale post bellico?
La risposta è evidentemente
affermativa, anche perché questo crinale (la prospettiva scientifica, storica)
è stretto ed impegnativo, ma aiuta a non scivolare nell’insidia di due opposte
ridotte.
La prima è quella di una agiografia,
ormai incapace di suscitare entusiasmo.
L’altra è quella – anche così – di
lasciare che, al modo di un gas pervasivo e pericoloso, si insinui nelle
coscienze una sorta di “negazionismo” delle ragioni morali che hanno motivato
molti mesi di dolore.
Perché non esiste un dolore giusto, da
contrapporre ad dolore ingiusto, nemmeno quando – anzi, soprattutto quando – è
una guerra civile quella che insanguina e infligge ferite ad un Paese.
Ma esiste – questa è la sintesi della
appassionata e lucida lezione di Barbero – un valore redentivo del dolore, che
perciò estende la propria capacità di tradurre al futuro anche la temperie di
un’ora irrorata di sangue, dicendo di un valore unitivo.
Unitivo di ceti sociali, unitivo di
appartenenze diverse, unitivo, infine, anche della cesura sempre aperta, nel
solco di quella grande discriminante che è – senza confusioni, né
appiattimenti, né ireniche ragioni di una pacificazione possibile solo nel
rigore della prospettiva storica – la separazione della parte dei vincitori, da
quella dei vinti.
La prolusione di Alessandro Barbero
sarà entro questa sera riprodotta, insieme all’intervento di Elisabetta
Dellavalle ed a qualche scampolo di questa intensa mattinata, che ha fatto così
bene a Vercelli, integrale in video su VercelliOggi.it.
Non sarebbe corretto esimersi dal
rilevare come l’illustre Ospite abbia voluto essere presente per tutto il corso
della manifestazione, incominciando con la S.Messa celebrata in S.Andrea, per
poi giungere – dopo la deposizione delle corone al Monumento ai Caduti – al
luogo dell’incontro.
Qui, al termine dell’intervento, si è
seduto accanto a due testimoni di quel tempo, i partigiani Olga De Bianchi e
Renato Giara, conversando con loro.
A più tardi.